Opinionisti Giulia Gambacci

Dante Alighieri alla Fratta nel “De vulgari eloquentia”

Fratta è l’antico nome di Umbertide

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Partiamo subito con il chiarire un aspetto, che sarà ridondante poi nelle prossime righe, ed è quello che Fratta è l’antico nome di Umbertide: era il 25 gennaio 1863 quando l’allora consiglio comunale decise di assumere il nuovo nome. Questa non fu un'iniziativa locale bensì del Ministero dell'Interno: con la proclamazione del Regno d'Italia c'erano infatti troppi Comuni che portavano lo stesso nome causando disagi e difficoltà sia nel servizio postale che nei procedimenti amministrativi. Quando giunse in città la comunicazione del Prefetto di Perugia di intervenire sulla denominazione, il sindaco nominò una commissione speciale con il compito di discutere della questione, formata dal segretario comunale Ruggero Burelli, dall'ingegnere capo del Comune Genesio Perugini e dal consigliere avvocato Costantino Magi Spinetti e il 14 dicembre 1862 fu convocato il Consiglio Comunale. Alla seduta, che risulto poco partecipata con soli 8 presenti e 12 assenti, furono sottoposte le quattro alternative individuate dalla commissione dopo un attento e lungo lavoro di ricerca: Foro Bremizio, Foro Giulio, Pitulo e da ultimo Umberta o Umbertide. Con sette voti a favore e uno contrario, il consiglio comunale decise per Umberta senza immaginare quale scalpore avrebbe causato quella scelta. La popolazione si ribellò e la delibera non fu mai inviata al Prefetto ma si preferì convocare un altro consiglio comunale, il 25 gennaio del 1863, a cui questa volta parteciparono 14 consiglieri. Su proposta di Magi Spinetti l'assise deliberò all'unanimità la denominazione di Umbertide, accettata anche dalla popolazione, che divenne esecutiva con il decreto regio del 29 marzo. Dopo questa breve ma necessaria premessa, arriviamo subito al nocciolo della questione, ovvero il legame che Umbertide – seppure, ovviamente, per questioni temporali sarà sempre citato il nome di Fratta – con l’esule fiorentino Dante Alighieri. Per fare questo, infatti, ci siamo aiutati dalle fonti messe gentilmente a disposizione dal gruppo di volontari che si rispecchiano nel nome di “Storia e Memoria di Umbertide”. La notizia è contenuta nel capitolo undicesimo del primo libro del “De vulgari eloquentia”, l'opera che Dante scrisse tra il 1302 e il 1305. È in lingua latina perché destinata ai dotti della sua epoca, contrari ad ogni tipo di vernacolo, e tesse l'apologia di un volgare nobile ed elevato che, nelle intenzioni del poeta, avrebbe dovuto sostituire il latino ormai sempre più in disuso. Perciò passa in rassegna le varie "parlate" conosciute non in seguito ad incontri casuali, ma per aver avuto contatti più o meno duraturi con le persone del posto. Nell'opera citata, infatti, Dante afferma: “Cumque hiis montaninas omnes et rusticanas loquelas eicimus, quae sempre mediastinis civibus accentus enormitate dissonare videntur, ut Casentinenses et Fractenses”. (Espello con essi tutte le parlate delle montagne e dei campi, come di quei del Casentino e di Fratta, che per brutta irregolarità dell'accento appaiono discordanti da chi abita nel mezzo della città). L'espressione “espello con essi” si riferisce agli altri dialetti in precedenza trattati (romano, “spoletano”, anconetano, milanese e bergamasco) che il poeta scarta come esempio di pessimo volgare. Allo stesso modo si mostra contrario all'uso dei due dialetti rustici di montagna (Casentino) e di pianura (Fratta) per l'irregolarità dell'accento e lo storpiamento delle parole. Dante era convinto che il volgare illustre fosse sulla bocca degli abitanti della zona centrale della penisola (mediastini) che per essere in continuo contatto di cultura e di affari con i popoli del sud e del nord potevano rappresentare la sintesi migliore dei vari dialetti. In questo senso la traduzione del brano riportato, ripresa da Aristide Marigo, non è del tutto felice; sarebbe stato meglio dire “... da chi abita nelle città del centro (della penisola)” e non “nel mezzo delle città”. Con il saggio sul volgare, Dante candidò il vernacolo fiorentino dei dotti a diventare la lingua ufficiale della penisola. “Quello che interessa rilevare in questo lavoro – rendono noto i componenti del gruppo ‘Storia e Memoria di Umbertide” - non è una dotta discussione sulla lingua trecentesca, ma la citazione, sebbene in negativo, del dialetto degli abitanti di Fratta. Il vernacolo di un piccolo castello che non aveva rapporti culturali o commerciali con Firenze, doveva essere conosciuto dal poeta per ragioni diverse dalle esigenze di scambio o dalle relazioni politiche intervenute quando era uno dei Priori del Comune fiorentino”. Perciò è quasi certo che il poeta, nelle sue prime peregrinazioni da esule, scendendo dai monti del Casentino, venne alla Fratta e si trattenne per qualche tempo nella foresteria del monastero camaldolese, sperimentando la profezia del trisavolo Cacciaguida: “Tu proverai si come sa di sale. lo pane altrui e come è duro calle. lo scendere e `l salir per l'altrui scale”. D'altra parte, subito dopo la fuga da Firenze, Dante era il politico perseguitato e non ancora il vate apprezzato; i suoi rifugi obbligati erano i romitori e i monasteri, non le famiglie blasonate che gli aprirono le porte solo in un secondo tempo. Dello stesso parere è Aristide Marigo, che nel commento a questo passo del De vulgari eloquentia scrive: “Sono due esempi, l'uno di montanina, l'altro di rusticana loquela. Cogli abitanti della valle superiore dell'Arno (Casentino) sono associati quelli della media valle del Tevere, che si allarga in ubertosi piani. Fratta, oggi Umbertide, era un grosso borgo, presso il quale si trovava il monastero camaldolese, allora famoso, di Monte Corona. Pare di sentire, nella menzione delle due valli, il ricordo delle prime peregrinazioni fatte in quei luoghi dal Poeta esule”. Tutti i commentatori danteschi concordano nel ritenere che Fractenses vada riferito agli abitanti di Fratta. Di questo parere fu anche il Rajna che nelle prime due edizioni del De vulgari eloquentia mantenne tale opinione per cambiarla poi nella terza con Pratenses, allineandosi all'opinione del Trissino e del Corbinelli. Ma Pratenses non può certo essere preso come esempio di rusticana loquela. Pertanto oggi è comunemente accettata la tesi che Dante si riferisse proprio agli abitanti del castello di Fratta e quindi di Umbertide. È strano che nella Divina Commedia non venga ricordata un'oasi di pace come l'abbazia camaldolese di Monte Corona. In ogni caso la conoscenza del dialetto di Fratta da parte di Dante può essere avvenuta solo in seguito alla sua permanenza sul posto da dove poté visitare anche le località circostanti citate nella terza cantica e in particolare Porta Sole, a Perugia. A questo punto possiamo affermare, con quasi tranquillità, come sia difficile trovare spiegazioni diverse.

Giulia Gambacci
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24/05/2025 12:11:44

Giulia Gambacci

Giulia Gambacci - Laureata presso l’Università degli Studi di Siena in Scienze dell’Educazione e della Formazione. Ama i bambini e stare insieme a loro, contribuendo alla loro formazione ed educazione. Persona curiosa e determinata crede che “se si vuole fare una cosa la si fa, non ci sono persone meno intelligenti di altre, basta trovare ognuno la propria strada”. Nel tempo libero, oltre a viaggiare e fare lunghe camminate in contatto con la natura, ama la musica e cucinare.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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