Educazione e carcere
Un Paese civile lo si vede dalle carceri e dalle scuole
Quando si parla di carcere, spesso, si parla senza sapere pienamente né la sua funzione, né se sia svolta pienamente. Il carcere va ricordato come istituzione recente, direi settecentesca e la sua funzione precipua e decisiva è quella della rieducazione e del successivo reinserimento nella società. La civiltà europea, figlia dell’insegnamento di Cesare Beccaria, deve a quest’ultimo tutta la propria visione del recupero del reo. L’art. 27 della Costituzione è, a questo proposito, decisivo e preciso: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Partendo da questo presupposto, l’Italia repubblicana ha posto in essere la sua modalità di giustizia, finalizzata non tanto alla punizione in quanto tale, ma al reinserimento nella società di quanti, attraverso le loro azioni, si erano posti al di fuori del consesso civile. La punizione, infatti, sta nella limitazione della libertà, necessaria per la protezione della società e anche per la dovuta rieducazione. Questo in teoria. Perché poi dobbiamo fare i conti con quello che succede effettivamente, sia nelle nostre carceri, sia nella società.
L’esigenza di giustizia, utile, importante e necessaria, diviene troppo spesso volontà di vendetta, a volte anche privata, togliendo allo Stato quella funzione di terzietà indispensabile per comminare vera giustizia. L’unico elemento che può far valutare un carcere come buono è la recidiva che viene creata. In poche parole: quanti escono dal carcere, commettono nuovi o più pesanti reati? Un carcere che funziona, infatti, dovrebbe avere, al di là della fisiologica percentuale di fallimento dell’azione educativa, una recidiva bassa. Il carcere è il luogo dove lo Stato fa mostra di sé, della sua capacità educativa, capace di accogliere nuovamente chi ha sbagliato. Sì perché una persona che sbaglia, non è per questo una persona sbagliata. Le energie profuse per commettere il reato, possono essere ugualmente usate per fare azioni meritorie e di grande impatto positivo. Se una persona è capace di fare il male, necessariamente è anche capace di fare il bene.
Vediamo però alcuni dati: quanta recidiva abbiamo nelle carceri italiane? L’ultimo dato disponibile parla del 68,4% di recidiva, ciò vuol dire che su 100 detenuti che scontano la pena in carcere, 68 di questi torneranno, una volta usciti, a delinquere. Se invece un detenuto è inserito in un ciclo produttivo, la percentuale di recidiva si attesta all’1%. Ciò significa che l’azione rieducativa è efficace se la pena è scontata fuori dalle mura carcerarie e se i detenuti sono inseriti in processi lavorativi e produttivi. Se poi aggiungiamo che psicologi e psichiatri hanno una presenza ridicola nel processo educativo, che non supera i 5 o 8 minuti settimanali a detenuto e che gli educatori stanno in rapporto ai detenuti a 2,17, contro una media europea che è al 3,5, comprendiamo perché il nostro sistema carcerario, a differenza di quello dell’Europa settentrionale, non supera l’esame. Si paga due volte: una volta per tenere le persone in carcere, poi per i danni fatti e per riportare nelle patrie galere chi commette nuovamente un reato. Il degrado, la sporcizia e il sovraffollamento arrivato al 131% rispetto ai posti regolari, non possono essere elementi educativi. Prendiamo spunto dalla Norvegia che possiede le migliori carceri al mondo: dotate di bellezza e dispensatrici di dignità, sono un sistema educativo che può vantare una recidiva globale pari al 16%. Basta vedere i filmati che raccontano il miglior carcere al mondo, quello di Bastøy, per creare un nuovo modo di vedere la questione.
Un Paese civile lo si vede dalle carceri e dalle scuole: le carceri dovrebbero essere come scuole, anche se in Italia rischiamo scuole che sembrano carceri, ma questo è un altro discorso.
Allora smettiamola di parlare di pene o di durata delle stesse, senza conoscere bene la situazione, senza ascoltare gli operatori che ogni giorno vivono quella esperienza, senza guardare all’estero con utile curiosità. Ascoltiamo chi il tempo del carcere lo conosce, perché quel tempo lo può misurare solo chi lo vive nel carcere. Da operatore o da ospite.
Leonardo Magnani
Leonardo Magnani è nato e vive a Sansepolcro. E’ laureato in filosofia e in scienze religiose. Insegnante di professione, da anni collabora con l’Associazione Cultura della Pace e si interessa di mediazione dei conflitti e di nonviolenza.
Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.
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