Emanuele Giaccherini, il calcio nel sangue e nel cuore: da Talla alla Nazionale Azzurra
I primi calci nella piazza del paese: Cesena rampa di lancio per Juventus e Napoli
È partito in punta di piedi dalla piccola Talla, uno dei più piccoli Comuni della provincia di Arezzo che insiste in Casentino, per arrivare poi a calpestare i rettangoli verdi più importanti al mondo: prima con la maglia dei grandi club e poi con la Nazionale Italiana; la tanto adorata maglia azzurra. Se dici Talla è ovvio che l’abbinamento naturale è quello al nome di Emanuele Giaccherini: classe 1985 partito dalle giovanili del Bibbiena per arrivare a Cesena ad appena 16 anni; da lì è stata una parabola sempre in ascesa arrivando ad indossare le maglie della Juventus, con cui ha vinto due scudetti, quella del Napoli, oltre a Bologna e Chievo dopo la parentesi inglese con il Sunderland. Le sue radici, nonostante l’importante carriera, sono sempre rimaste salde in Casentino dove oggi abita con la moglie e i suoi tre figli. Grande volontà, semplicità, umiltà e certamente un'innata propensione a questo sport: sono di fatto questi gli ingredienti del successo sportivo di questo ragazzo. Il suo talento innato lo si poteva notare fin dai primi anni delle scuole elementari perché rispetto ai suoi coetanei era un vero funambolo con il pallone tra i piedi nelle piazze di Talla. Un talento calcistico che non ha mai posto limiti ad Emanuele Giaccherini e lo dimostrano anche i numeri della sua lunga carriera calcistica fatta di 416 presenze nel mondo del professionismo e 70 reti siglate. L’apice della sua carriera è stato con l’approdo in Nazionale e la chiamata quasi inaspettata di Cesare Prandelli nell’avventura agli Europei 2012, con il debutto immediato nella gara contro la Spagna. Non lo conoscevo personalmente, mi è stato dato il contatto da un collega e molto umilmente ho digitato i dieci numeri. Ho spiegato a lui di cosa si trattava e la risposta è stata secca. “Sì, mi piace”. Ci siamo trovati di lì a poco nella piazzetta di Talla, una mattina di inizio ottobre tra una battuta ed un aneddoto Emanuele ha messo in luce il suo spaccato di vita calcistica. Un grande campione sia nella vita che nello sport e lo ha dimostrato a più riprese: il Casentino, la provincia di Arezzo ma l’Italia intera devono essere sicuramente orgogliosi di un calciatore come Emanuele Giaccherini.
· Come e quando Emanuele Giaccherini si avvicina al mondo del calcio?
“Un po’ come tutti i bambini, con i miei amici in paese. Avevo circa 5 anni, ci si ritrovava in piazza qua a Talla: le porte erano i vicoli e si dava i primi calci al pallone”.
· Sempre stato convinto di praticare questo sport?
“Si, perché la palla mi piaceva tanto. Era il mio migliore amico, la portavo anche a letto con me. Nel mio percorso ho praticato anche il nuoto, seppure non lo frequentavo come il calcio: inizialmente lo consideravo solo divertimento, lo sport era un’altra cosa. Correvamo semplicemente dietro ad un pallone, non c’era una squadra e ne tantomeno un team; giocavamo così, tra una piazza ed un parco verde. Un po’ dove capitava”.
· Può sembrare una domanda generica e forse anche scontata: l’esperienza più bella che hai vissuto nel mondo del calcio professionistico?
“Sicuramente l’Europeo del 2016 perché siamo stati quasi due mesi tutti insieme e forse quello è stato anche l’apice della mia carriera calcistica. Devo dire che quando siamo stati eliminati contro la Germania in quel momento sono passati tanti sentimenti, ognuno di noi li ha vissuti in maniera particolare ed ancora oggi quando mi ritrovo o ci sentiamo con loro parliamo di quell’Europeo. È stato un bel momento, al dì la poi di come sono andate le cose”.
· Sei originario di Talla, in Casentino, dove oggi sei tornato ad abitare con la famiglia: ma se ti dico Sansepolcro e aggiungo Torneo Carlo Oelker cosa mi rispondi?
“E’ un torneo che ho fatto un paio di volte quando giocavo con la Bibbienese e mi ricordo che un anno vinsi anche il premio come miglior giocatore, trofeo che ancora oggi conservo nella mia bacheca. Un torneo molto bello e partecipato in un impianto importante come quello dello stadio Buitoni di Sansepolcro. Sicuramente è stata occasione anche per mettermi in mostra e qualche osservatore era seduto in tribuna: di provini ne ho fatti molti gli anni successivi, fino ad approdare al Cesena”.
· Il primo giorno a Cesena: che emozione hai provato?
“Una delle più grandi della mia carriera nel mondo del pallone. La prima volta, quando andai a firmare e vidi lo stadio ‘Dino Manuzzi’, mi sembrava di vivere un sogno seppure dentro la mia testa c’era già l’idea di poterci giocare. Cesena per me è stata una seconda casa, anche perché sono andato via da Talla quando avevo 16 anni e nella città romagnola ho vissuto per 6, 7 anni tra settore giovanile e prima squadra. Debbo dire che sono sempre stato ben accolto da tutti”.
· Sempre in bianconero, da Cesena a Torino con la maglia della Juventus: che aria si respira in un grande club?
“Basta poco per capire che passare dal Cesena alla Juventus il salto è stato bello grande, a mio avviso anche in Serie A ci sono poi delle categorie: il Cesena era una provinciale e doveva salvarsi, la Juventus vincere lo scudetto. Andai a Torino grazie ad Antonio Conte che già l’anno prima mi voleva a Siena. Andare alla Juve significava giocare con i più grandi calciatori al mondo: erano gli anni di Del Piero, di Buffon, di Chiellini, Barzagli, Pirlo e tanti altri; tutte persone che avevano già vinto un mondiale. Non nascondo che nel vestire quella maglia inizialmente un po’ di timore c’era, ma è stato proprio grazie a quei campioni che in poco tempo mi hanno fatto sentire uno di loro”.
· E qui hai vinto per ben due volte lo scudetto: cosa significa per un calciatore vincere il campionato?
“Partiamo dal fatto che vincere lo scudetto è una cosa difficilissima perché alla fine in un campionato la spunta solamente una. Non basta dirlo o annunciarlo ad inizio stagione, bensì bisogna andare in campo e concretizzare poi quello che si dice. I due scudetti vinti con la Juventus hanno sicuramente delle differenze sostanziali. Il primo è stato quello del sudore e del sacrificio, noi con mister Conte sputavamo davvero il sangue alla fine di ogni allenamento. Uno scudetto che è quindi stato l’emblema del lavoro svolto. Nel secondo, invece, sono iniziati ad arrivare anche alcuni rinforzi come Giovinco o Pogba e quindi fu un po’ la scia del primo. Si vinse in maniera più facile e mi fa piacere di essere ricordato anche per quel gol contro il Catania in pieno recupero; insomma, detto da tutti fu la rete scudetto. Sono stati momenti importanti, nella prima stagione avevo più spazio mentre nella seconda soffrì un po’ la presenza di grandi campioni oscurando un po’ quelli che erano i miei numeri. La cosa che mi inorgoglisce della parentesi juventina è il fatto che quando andai via i tifosi non volevano, ma quando arrivai avevo addosso tanti punti interrogativi poiché si domandavano se un ragazzo che arrivava da una provinciale come il Cesena si meritasse quella maglia”.
· Poi la parentesi in Inghilterra con il Sunderland: quali sono le differenze con il calcio italiano?
“Ci sono e anche ben marcate. La prima è il non tatticismo, in Inghilterra si gioca molto a livello individuale seppure negli ultimi anni sono arrivati tanti tecnici stranieri che hanno dato un’impronta che si vede anche nel calcio europeo. L’altro aspetto è il fatto che le squadre non speculano nel risultato, mentre in Italia alla fine quello che più conta è proprio il risultato finale. Le differenze sostanziali sono poi nell’organizzazione, negli stadi, nel clima e nella gente che considera andare allo stadio un po’ come recarsi in teatro; c’è il rispetto per i ruoli e nessuno che ti dice qualcosa”.
· Da Talla alla Nazionale Italiana: quanto pesa la maglia azzurra?
“La maglia azzurra non mi è mai pesata. Può sembrare un controsenso, ma nessuna di quelle che ho indossato ha pesato. Quando un giocatore scende in campo sa che deve dare il massimo, a quel punto ha la coscienza pulita: questo vale in particolar modo per la maglia della nazionale. Personalmente, come calciatore, ho sempre dovuto conquistarla domenica dopo domenica non avendo un nome altisonante come potevano essere quelli di De Rossi o Marchisio che l’avevano cucita addosso. Sapevo che dovevo tenerla stretta. Come? Attraverso le mie prestazioni con le maglie dei club dando non il 100 per cento, bensì il 150 per cento. Questo anche con la maglia dell’Italia e oggi, in effetti, se mi guardo indietro mi accorgo di aver lasciato il segno: vengo ricordato per grandi prestazioni e anche determinanti, addirittura più di altri che in qualche modo avevano il posto sicuro. Il dovermi guadagnare sempre la maglia alla fine mi ha permesso di avere anche in Nazionale un rendimento alto. Voglio raccontarvi anche un aneddoto che in pochi sanno. La prima chiamata in Nazionale avvenne nel 2012 da mister Prandelli, in occasione degli Europei di Polonia e Ucraina. Prima di partire, ci ritrovavamo a Coverciano, il tecnico aveva lasciato a tutti un paio di giorni liberi che io decisi di trascorrere a Talla: una sera guardavo le stelle e pensavo come fosse incredibile che di 60 milioni di persone quanti siamo in Italia io, da questo paesino sperduto nelle colline aretine, ero uno dei 23 convocati per giocare l’Europeo di calcio e rappresentavo in quel momento l’Italia. Mi venivano i brividi pensare che quel bambino vent’anni prima giocava con la palla in piazza e vent’anni dopo aveva l’occasione di giocare negli stadi più belli al mondo il cui esordio avvenne contro la Spagna”.
· Quando e come mai hai deciso di appendere le scarpette al chiodo?
“Devo dire che è stato abbastanza facile. A 36 anni, quando indossavo la maglia del Chievo, ho avuto un brutto infortunio con il distaccamento del tendine del flessore che mi ha tenuto fuori dai campi per un lungo periodo. Sono stati mesi duri, alla fine rientrai anche in squadra ma non stavo benissimo. Non sono mai stato un giocatore che ha lucrato su queste cose: vedevo che gli altri andavano più forti di me e ho capito che il mio momento era terminato; andando avanti avrei solamente sofferto poiché non sarei stato più in grado di tenere certi ritmi. Quindi, scarpette al chiodo e nuovo percorso professionale”.
· Oggi Emanuele Giaccherini cosa fa?
“Il commentatore e opinionista televisivo per Dazn. Ho entusiasmo e credo che lo sto facendo anche bene: mi appassiona commentare le partite e riportare quelle esperienze da calciatore. Far vedere allo spettatore la partita con l’occhio di un ex giocatore. Mi piace perché ogni domenica sono in uno stadio diverso, ritrovo colleghi e ho modo di conoscere nuovi calciatori. Un lavoro concentrato per lo più nel weekend, tale da farmi vivere durante tutta la settimana la mia famiglia”.
· Perché un giovane oggi si dovrebbe avvicinare al mondo del calcio?
“Adesso stiamo parlando di calcio perché è stato il mio sport, seppure questo vale un po’ per tutte le attività. Il calcio, in questo caso, ti può togliere da quelle cattive strade che potrebbero prendere i giovani. È uno sport di aggregazione, affronta l’aspetto del sociale e di crescita per i ragazzi che condividono poi spogliatoio e momenti. Io penso che lo sport in generale sia un momento di crescita sotto tutti i punti di vista, sia sul lato sportivo che in quello umano: ti fortifica il carattere, affronti gli ostacoli e ti poni anche degli obiettivi. Io penso che siano questi i motivi per il quale i giovani si devono avvicinare al mondo dello sport”.
· Luciano Spalletti tecnico della Nazionale: l’uomo giusto al momento giusto, oppure l’unico a disposizione in quel momento?
“Assolutamente il tecnico giusto al momento giusto. Spalletti è un grandissimo allenatore e l’Italia ha fatto benissimo a prenderlo subito. I due papabili in quel momento per far ripartire la Nazionale erano comunque Spalletti o Conte. Siamo in buone mani, mi dispiace non averlo mai avuto come mister, e speriamo che Luciano possa fare con l’Italia quello che ha fatto con il Napoli portandolo allo scudetto”.
· Il calcio è stata la tua vita e lo è tuttora: ma come è cambiato negli anni?
“Si è velocizzato, modernizzato e oggi si viaggia al triplo della velocità rispetto a 15 anni fa. Continui aggiornamenti sia da parte dei tecnici che dei preparatori fisici che oggi hanno un’intensità ben più elevata; ci sono figure nuove come quella del match analyst in grado di fornire tantissimi dati, mentre prima si guardava solamente la partita dell’avversario. È cambiato, ma credo che si possa notate agli occhi di tutti”.
· Hai pensato di intraprendere la carriera da allenatore?
“Si e ho pure fatto il corso di Uefa B e Uefa A, ma fare l’allenatore significa ripartire da zero. In questo momento sono felice del lavoro che sto facendo, poi negli anni vedremo se ci sarà la voglia e la possibilità”.
· Per una società sportiva, che sia nel mondo del dilettantismo o del professionismo, quanto è importante puntare e coltivare il settore giovanile?
“È fondamentale! Faccio il mio esempio e torno di nuovo agli anni del Cesena, società che ha sempre puntato sui giovani formando Rizzitelli, Ambrosini, Agostini, Comandini tanto per fare qualche nome. Il Cesena quando mi ha venduto alla Juve ha messo in cassa circa 8 milioni di euro, che per una società di provincia è sicuramente un bel bottino. Questo per dire che investire sul settore giovanile è sempre una buona cosa, sia per le big che in particolare per le società cosiddette minori, poiché ti possono dare risorse anche per la prima squadra”.
· Il calcio femminile in Italia: una partita ancora da giocare, oppure oggi è considerato al pari di quello praticato dagli uomini?
“Purtroppo non è affatto considerato al pari dell’altro, deve ancora crescere seppure passi in avanti importanti ne sono stati fatti. Oggi ci sono diverse società del professionismo che hanno pure i settori giovani femminili, anche in tv si vede di più ma non siamo ancora al livello delle altre nazioni. È compito di tutti cercare di alimentare il calcio femminile, farlo crescere perché le potenzialità sono tante”.
· Dal punto di vista personale cosa ha rappresentato e cosa ti ha lasciato dentro il calcio giocato?
“Il calcio è stato la mia vita. Mi ha portato tante emozioni, momenti belli e altri un po’ meno; ho festeggiato e gioito, ma anche sofferto e stato sconfitto. Mi ha permesso di fortificarmi come uomo e saper affrontare quelli che possono essere gli ostacoli della vita. Oggi sono un genitore e gli insegnamenti avuti dal mondo del calcio li voglio trasmettere ai miei figli. C’è stato tanto sacrificio per arrivare così in alto, ci sono stati momenti in cui avrei voluto mollare ma la tenacia mi ha sempre dato la spinta giusta per andare avanti”.
· Il calciatore più forte che hai avuto come avversario? Mentre in squadra?
“Come avversario Eden Hazard durante la parentesi inglese: mi ha davvero impressionato nel periodo che indossava la maglia del Chelsea; in squadra dico Pirlo, Del Piero e Buffon. Tre leggende del calcio, campioni incredibili”.
· Lo vuoi lasciare un saluto ai lettori de l’Eco del Tevere?
“Ben volentieri, è stata un’occasione importante. Spero che questa intervista possa essere utile a tanti ragazzi che si affacciano nel mondo del calcio e dello sport in generale. Solamente credendo nei risultati, si raggiungono poi gli obiettivi”.
Intervista esclusiva realizzata da Davide Gambacci
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