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Il repubblicano Kevin McCarthy eletto speaker della Camera

Dopo quindici votazioni il Partito Repubblicano ha scelto il suo leader

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Dei tre aspiranti tenori del Partito repubblicano, Kevin McCarthy, neo Speaker della Camera, era il pragmatico, l’uomo più interessato a tessere relazioni e a vincere elezioni piuttosto che pensare a leggi e alimentare le visioni del Gop del futuro. E dei tre che avrebbero dovuto prendere sulle spalle il Partito repubblicano che nel 2010 veniva sfidato dal Tea Party, da Sarah Palin e da un movimento che ha anticipato in un certo modo il trumpismo, e assisteva alla luna di miele del mondo con Barack Obama, alla fine è rimasto solo lui.

Eric Cantor nel 2014 ha perso le primarie battuto da un ultraconservatore; Paul Ryan ha corso con Romney nel 2012 sfidando Obama e Biden, qualche anno dopo è uscito dalla Camera rifiutando ruoli da leader.

Se Cantor era il mastino, Ryan la bella speranza, McCarthy, 58 anni, nato a Bakersfield in California e lì cresciuto a pane e politica in un piccolo ristorante di un amico aperto grazie alla vittoria di 5mila dollari alla lotteria, era quello che si sporcava le mani e si alzava al mattino pensando alla prossima elezione da vincere. A livello locale, statale o federale.

L’ha costruita così la sua macchina del consenso, sostenendo alleati, qualcuno scomodo, e rivali interni utili però per la causa che l’ha sempre accompagnato: quello di non restare per sempre attaccato all’etichetta di “leader della minoranza”.

Già da deputato dell’Assemblea della California – vi entrò nel 2002 - era assillato dall’idea di non arrivare a essere il leader della maggioranza. Ci riuscì e vi rimase fino a quando nel 2007 non fece il salto a Washington, prendendo il posto del suo mentore, Bill Thomas, di cui era stato assistente. Prima aveva guidato i giovani repubblicani.

Nel 2010 i “Young Guns” (così erano noti Cantor, McCarthy e Ryan) vinsero le Midterm e scrissero anche un libro a sei mani con lo stesso titolo. Nell’epoca di Obama, giovane e rassicurante, anche il Gop cercava profili da contrapporgli, politicamente e a livello di immagine.

La missione fallì e la nomination di Trump nel 2016 ne è il fulgido esempio. Ma non deragliò certo la corsa di Kevin McCarthy. Rimasto “orfano” dei compagni di corso per aspiranti leader del Gop, nel 2015 aveva già tentato l’ascesa al ruolo di Speaker quando John Boehner dell’Ohio, decise di lasciare l’incarico. Non ci riuscì guarda caso per l’opposizione di un gruppo di deputati dalle caratteristiche diverse dal Freedom Caucus ultraconservatore che gli ha fatto penare 15 elezioni prima di dare semaforo verde.

Così in nome di un pragmatismo diventato ideologia e motore dell’azione politica, per la seconda corsa ha costruito negli anni di leader dell’opposizione un team di rivali, avvicinandosi alla pasionaria dalle dichiarazioni incendiaria Marjorie Taylor Green e Jim Jordan, fondatore di quel Freedom Caucus che sino alla fine si è opposto a Kevin il californiano.

Per trovare un riferimento ai grandi conservatori del passato nella biografia di McCarthy bisogna setacciare archivi e dichiarazioni con scarsa fortuna.

I conservatori lo accusano di non essere abbastanza reaganiano, i moderati di essere troppo accondiscendente agli umori della destra; i realisti lo accusano di voler smontare la visione repubblicana in politica estera – difesa degli interessi nazionali e delle alleanze – minando il sostegno all’Ucraina a cui non vuole dare armi come se fossero assegni in bianco. McCarthy è un po’ tutto di questo. È trumpiano senza esserlo, perché alla politica ci è arrivato prima di lui e perché del trumpismo non ne condivide il metodo dell’improvvisazione. Non fa parte del modo con cui Kevin ha conosciuto la politica.

Eppure, il loro legame ha segnato il Gop negli ultimi anni. Quando Trump era presidente la sintonia è stata fine, tanto che Donald lo chiamava “il mio Kevin”. L’assalto del 6 gennaio ha aperto una crepa nella relazione, sigillata rapidamente. Poche settimane dopo il blitz estremista, Kevin era su un aereo per Mar-a-Lago per incassare il sostegno di Donald alle Midterm nel 2022. Ancora una volta – come ha scritto Fred Barnes, uno dei più acuti commentatori conservatori già vicedirettore del defunto Weekly Standard, fucina della divulgazione dei neoconservatori – Kevin pensava a “come vincere le elezioni più spesso e di più”. Così in trenta giorni MaCarthy aveva compiuto una piroetta strepitosa passando da Trump “che ha la responsabilità del sei gennaio” a Trump “che si è impegnato a rafforzare l’unità del partito e ad aiutarlo a vincere le elezioni del 2022”. Scommessa finita male visto l’esito delle Midterm di novembre.

Cosa farà da Speaker lo si desume dalle promesse e dalle iniziative che ha illustrato negli ultimi mesi. Non tutta farina del suo sacco, soprattutto ora che deve la conquista del “gavel” che fu di Nancy Pelosi, a sei astenuti ultraconservatori che gli hanno dettato condizioni capestro e che ogni volta che il mondo chiederà una cosa, potrebbero svegliarsi esigendone un’altra.

Linea dura sull’immigrazione, composizione di commissioni d’inchiesta, qualche prurito per impeachment, magari contro il segretario della Homeland Security Alejandro Mayorkas. E poi l’economia, il rigore di bilancio, i fondi per la sicurezza nazionale. Ma questa è la partita che si aprirà da lunedì. Ora Kevin McCarthy, l’uomo che non voleva essere minoranza, al 15esimo tentativo ha coronato il sogno. Con tanto pragmatismo.

Notizia e foto tratte da La Stampa
© Riproduzione riservata
07/01/2023 14:10:33


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