Cuba alla fame. Dalle macellerie senza carne spariscono Fidel e il "Che"
Il popolo in rivolta sull'isola
Al grido di «patria e vita», la canzone simbolo della rivolta dell'11 luglio 2021, migliaia di cubani hanno iniziato a manifestare domenica contro il regime di Miguel Díaz-Canel, circondando anche la sede del Partito Comunista nella seconda città dell'isola, Santiago de Cuba. La «culla della Rivoluzione, secondo la propaganda ufficiale e forse potrebbe esserne la tomba» secondo la giornalista Yoani Sánchez, appoggiata in Italia dai grandi media (quelli di Gedi in primis) sino a quando Barack Obama e Raúl Castro non siglarono l'appeasement del dicembre 2014. Lei oggi scrive su 14yMedio, rivista online che ha fondato e che aiuta a comprendere la usuale repressione del regime.
Già perché i cubani oltre a «cibo» e «luce», invocano soprattutto «libertà» e gridano «assassini», come documentano i pochi video postati sui social prima che arrivasse la censura del governo ad interrompere le comunicazioni e internet. Dopo oltre 65 anni di dittatura che li ha ridotti alla miseria e all'emigrazione di massa è comprensibile la rabbia del pueblo. Le macellerie dell'Avana stanno togliendo con discrezione i ritratti di Fidel Castro, di suo fratello Raúl e del «Che» Guevara dopo una direttiva interna del regime. L'obiettivo di eliminare le immagini degli eroi della rivoluzione è calmare una popolazione affamata ed esasperata e non associare la miseria al partito comunista, l'unico autorizzato sull'isola caraibica.
«Ci hanno detto di rimuovere le foto», ha confessato a 14yMedio un negoziante di Nuevo Vedado, L'Avana. «Hanno chiamato dal ministero del Commercio Interno. Ci hanno detto in una riunione che la controrivoluzione utilizzava le foto scattate dall'interno dei negozi per creare disordini popolari e associare i leader del processo alla scarsità di approvvigionamenti», ha confermato un negozio dell'Avana Vecchia. «Non vogliono che la gente continui a pubblicare sui social network foto macellerie senza cibo ma piene di propaganda».
Invece su gran parte dei media la regola d'oro quando va bene è il silenzio tombale sulla crudeltà umanista di questo regime e, più sovente, la diffusione della propaganda castro-comunista, ovvero che le proteste sull'isola in corso da domenica sarebbero «colpa degli Usa» e del loro «bloqueo». Così il regime chiama l'embargo Usa, che è inesistente se non sui materiali inerenti la sicurezza interna Usa visto che, solo per fare un esempio, la stragrande maggioranza di carne di pollo importata negli ultimi 12 mesi dal regime è arrivata proprio dagli Stati Uniti.
La narrativa castrista usata per coprire tutti i mali dell'isola, dalla corruzione allo sfregio per i diritti umani e agli stipendi da fame (7 euro il «salario minimo» che alcuni vorrebbero introdurre anche in Italia) oramai i cubani non se la bevono più perché sanno bene di convivere da anni con una doppia economia, quella dollarizzata destinata a nomenclatura del partito unico e turisti e quella ancorata al peso, per il pueblo. E sanno anche che il «bloqueo» non centra nulla. Cuba commercia infatti con quasi 200 Stati (compresa la sanzionata Russia) e ogni genere di prodotti entra regolarmente nell'isola, comprese tonnellate di farina per la panificazione, ma seguono le vie commerciali imposte da Gaesa, il gruppo di gestione aziendale delle Forze Armate che controlla le sedicenti Pmi «private» tanto elogiate dall'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell nella sua ultima visita ufficiale, 10 mesi fa.
Cibo a Cuba ce n'è dunque da vendere, a prezzi italiani quando non svizzeri per turisti e membri del partito comunista, mentre la crisi alimentare è esclusiva dell'88% della popolazione che secondo i dati indipendenti vive in una povertà aggravata dalle folli politiche economiche del regime di Díaz-Canel. Dal 1 marzo la dittatura ha infatti quintuplicato i prezzi della benzina, facendo così schizzare l'inflazione a livelli insostenibili per il popolo minuto. Per questo, da 72 ore a Santiago di Cuba e Bayamo, a Santa Marta e Marianao ma soprattutto in tutta la parte più misera dell'isola, quella orientale, i cubani sono tornati di nuovo in strada. Come l'11 luglio 2021, quando il regime reagì con violenza estrema, arrestandone almeno 5mila. Settecento sono ancora in carcere, compresi una trentina di minorenni. Se avessero le armi, oggi Cuba sarebbe come Haiti.
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