Zucchero e la depressione: "Come ne sono uscito dopo 6 anni"
Non sapevo dove andare a stare
Diavolo di uno Zucchero: indiscusso e inedito, fragile e appassionato, desideroso di aprirsi in maniera inaspettata e meno autocelebrativa. “Sono unico in quanto solo”, parole sue. Altra parola chiave (da ricercare): la genuinità. Le pronuncia durante la conferenza stampa alla 18esima Festa del Cinema di Roma, dove presenta il docufilm evento a lui dedicato, Zucchero – Sugar Fornaciari, in uscita il 23, 24 e 25 ottobre (distribuito da Adler Entertainment) firmato da Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano. Un racconto di vita e vite, passato in simbiosi con la musica, il blues, i tanti incontri rivelatori, da Pavarotti (“lo convinsi al duetto per Miserere, da lì nacque il Pavarotti&Friends”) passando per Sting, De Gregori (che lo definisce perfettamente, “tribolato”) Bryan May, persone, artisti unici (come lui) pronti a unirsi, e a fare la storia. Tante interviste da vedere, a lui, agli amici, ai collaboratori, seguito per più di un anno in tournée, con 90 ore di archivi visionati, fotografie, il doc è uno spaccato dal punto di vista personale, che però non è staccato da quella artistico. Nella sua arte, afferma uno dei registi, “c’è tanto delle sue origini, le ferite, la ragione che lo spinge sul palco, a cercare casa nel mondo. Questa è la storia di un successo e sofferenza, di una grande rockstar”.
"Sono unico in quanto solo. La parola chiave? Genuinità"
Ma è anche l’occasione visiva, emotiva, esistenziale, per provare a guardarsi indietro, in quello che è un viaggio letteralmente incredibile. E non ci sono parole che possono riassumerlo al meglio, perché tra concerti, 5 continenti, 60 paesi, 650 città, curiosità, il grande cantautore italiano risulta, tutt’oggi, uno dei grandi protagonisti della musica internazionale. Dalla dimensione di provincia, a Roncocesi, dov’è nato, allo status di rockstar internazionale, il passo (non) è stato così facile Un percorso duro, articolato, ed è proprio lui a rompere il ghiaccio. Che sensazione fa vedere quello che ho fatto? «Ci ho pensato dopo aver visto il documentario, le testimonianze dei miei colleghi che sono stati anche troppo generosi, non me lo aspettavo onestamente, sono apparsi vogliosi di parlare di me.e della mia storia. La verità è che mi sono posto in maniera istintiva, ci vuole costanza e tenacia, ma nel mio caso è stata una esigenza, non miravo ad essere Elvis Presley, ma a vivere decorosamente e crearmi la mia famiglia.
"Bussavo a chiunque e tornavo a casa sconfitto"
I primi 10 anni sono stati molto duri, tutti dicevano nelle case discografiche, ma “cosa vuoi fare, che voce che hai, non funzionerà mai in Italia”. E io bussavo a chiunque, tornando a casa sconfitto, avevo una famiglia, una figlia, ed ero senza una lira. È stata una esigenza anche quella di continuare a essere tenace, a inventarmi, le ho provate tutte fino all’ultima spiaggia». La salvezza? “Il brano Donne, se non fosse arrivato sarei stato storia, non mi volevano più. Arrivò penultimo a Sanremo nel 1985, ma fu un successo in radio, e da lì mi fecero il secondo album”.
Ma è uno Zucchero, come detto, a cuore aperto, quando affronta uno dei momenti più bui, ovvero la depressione. «Io non sapevo dove andare a stare”, prosegue. “Abitavamo a Forte dei Marmi, con la mia ex moglie e figlie, ho provato a tornare a Reggio Emilia, dai miei in campagna, mio padre viveva però nel suo mondo, io tornavo tardi, lui alle 6 era nei campi, durò una settimana, non aveva capito, lo intervistarono pure e rispose “a me piace il valzer e la mazurka”. Una sera, in una pizzeria, con degli amici, mi lamentavo sul dove stare, o rimanere lì, o tornare indietro. Il sindaco di allora di Pontremoli, Ferri, ascoltò e mi disse, “saremmo onorati se venisse da noi”. Ogni 2 – 3 settimane una persona che lavorava per lui mi faceva vedere mulini borghi, e più cose belle vedevo, più mi sentivo solo. Se non potevo condividere tutto quelle con le persone che amo, che cazzo me ne faccio, dicevo, di un soffitto del ‘700, non mi serve. Alla fine dopo un anno vado su con la mia Harley Davidson, trovai una valle e una casa di sasso diroccata, un vecchio mulino, andai a vedere lì, giù per una mulattiera. Mi siedo sull’erba, c’è un fiume, che bel silenzio, che bella vibrazione, mi sembrava di esserci già stato. Decisi per quella, ma l’idea era di non andarci mai. Poi, dilaniato tra le figlie a Forte dei Marmi e i miei (compreso mio fratello) a Reggio, ho detto “guarda un po’, mi trovo a metà strada. Risistemai tutta casa, mettendo animali, andando dai rigattieri per i mobili. Due anni dopo stavo già meglio». Nel 2024 arriverà il nuovo tour, “Un Overdose d’Amore”, a marzo, da Londra, per proseguire in tutta Europa, Scandinavia, Italia (uno a San Siro) e dopo andare in America e Sud America. “Non ho mai seguito il music business, prendo spunto semmai da Clapton o B.B King, vado e suono. La priorità, adesso, dove discografia soffre per l’avvento di Spotify, è il live. Viene prima il live della strategia delle case discografiche, il mio calendario è sempre aperto. Quando sei fuori, sul palco e fai il tuo lavoro, devi essere soprattutto una cosa, genuino”.
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