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Salame infetto, in ospedale 46 persone: il parassita dei cinghiali ora allarma tutte le Asl

Per il momento le intossicazioni si sono verificate soltanto in Val di Susa

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Adesso è allarme. Perché da 20 sono salite a 46 le persone che, in Valle di Susa, hanno contratto la trichinellosi, l’infezione legata al consumo di carne cruda, compresi salumi e altri insaccati di cinghiale o di animali selvatici macellati a livello domestico. Ora l’allerta è davvero estesa a tutte le Asl della provincia di Torino, soprattutto dove ci sono i Comprensori Alpini di Caccia ed è obbligatorio il controllo di qualunque preda impallinata in giro per i boschi. «Solo nella media e nell’alta Valle di Susa nei nostri punti di controllo vengono analizzati ogni anno circa 1200 capi abbattuti dai cacciatori – spiega Flavio Boraso, direttore generale dell’Asl To 3 –. E, in nessuno di questi animali, è stata riscontrata la presenza di infezioni». Quello che sospettano gli investigatori è semplice. Molto probabilmente qualcuno ha «lavorato» male le carne di un ungulato confezionando salumi che sono finiti sulle tavole nei giorni scorsi. Anche perché delle 46 persone costrette a correre al pronto soccorso dell’ospedale di Susa, molti sono amici o parenti stremati dalla diarrea, vomito, da dolori muscolari acuti, con febbre, edemi alle palpebre e spasmi addominali. Tutti sono poi stati costretti a raggiungere gli ambulatori dell’ospedale Amedeo di Savoia, specializzato nelle patologie infettive. 

«Dopo che è stata accertata la diagnosi che, di solito, corrisponde ad un aumento degli eosinofili, un tipo di globuli bianchi che rivestono un importante ruolo nella risposta dell’organismo alle infezioni da parassiti, si passa alla terapia – spiega il professor Giovanni Di Perri, direttore della clinica di malattie infettive dell’Università di Torino presso l’Amedeo di Savoia –. In questi casi viene usato l’albendazolo, un antiparassitario che si prende per bocca e uccide il verme». E, così, se tutto va bene il paziente torna in forma nel giro di pochi giorni anche se, precisa il professor Di Perri, «il ciclo completo di cura dura un paio di settimane». Ovviamente, per gli esperti, l’ideale sarebbe non mangiare carne cruda di cinghiale della quale non si conosce la provenienza. Per evitare l’infezione la carne va comunque cotta per almeno tre minuti ad oltre 70 gradi. «L’attenzione va posta nei territori alpini e prealpini – avverte ancora Boraso – dove alla caccia al cinghiale si associa ancora la tradizione della macellazione domestica e la preparazione di salumi. Non ci sono problemi invece per le carni trattate in macelli e salumifici controllati». Per gli esperti, nonostante l’impennata di casi in Val di Susa (dove l’infezione era comparsa l’ultima volta nell’ottobre 2017 a Villafocchiardo) resta remota l’ipotesi di rischio epidemia. «Siamo seriamente preoccupati – denunciano Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti Piemonte, e Bruno Rivarossa, il delegato confederale – perché oltre a tutti i disastri che già provocano i cinghiali al mondo dell’agricoltura, ora si aggiunge la possibilità di una commercializzazione fiscalmente non tracciata».

(foto generica)

Notizia e foto tratte da La Stampa
© Riproduzione riservata
09/01/2020 14:33:20


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