Opinionisti Giorgio Ciofini

Ritratto di Aldo Ducci

Ritratto dietro le quinte di un grande aretino visto da un suo alunno dalla prima elementare

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Lo chiamavano ‘lgobbo, ma sottovoce e quando non sentiva. Sennò era Aldo per i compagni e, per tutti quel’altri, il signor sindaco. E si mettevano anche sull’attenti. Governò ai tempi de’l’età dell’oro, quando nell’Olimpo regnava ancora Suturno e Arezzo era ‘l paese del Bengodi, che si trovava esattamente al centro della terra. Insomma quando, nella piana che sta tra Poti e Lignano, si smacchiava un’a dieci i dollari co’l’oro e ‘l buio co’l’uvva nera.  A me ha sempre ricordato il senatore Andreotti, quello che ‘l potere logora chi unn’ce l’ha. La differenza era che uno era democristiano e l’altro socialista, che Giulio era romano e Aldo un’de noialtri. Non sono mica differenze da poco? Dopo il ventennio fascista, a’Rezzo, venne quello del Ducci, perchè dopo la notte viene ‘l giorno, dopo l’inverno l’estate e dura uguale. Ma c’è chi dice che fu per la legge del contrappasso e chi per l’ironia della sorte. Chi avrà ragione? Comunque ‘l Ducci era ‘n illuminista. Ce l’aveva coi preti, il re e l’ancien regime come Robespierre e fin qui non ci piove, ma per me era cresciuto alla scuola del Machiavelli. Solo un cultore del Principe poteva stare per quasi trent’anni di fila com’un re ‘n sella al cavallo rampante e repubblicano del Comune, dislocando Piazza Sant’Agostino ‘n Provincia senza battere ‘na musata per terra. Alla fine fu vittima del fuoco amico d’uno del contado. Calò da Bibbiena il Vannucci coi su’cospirati, intorno a’le idi di marzo del 1990 e mise fine al su’regno. Repubblicano e monarca, socialista e massone, visionario e prammatico, il Ducci fu ‘na sintesi kantiana de’l’opposti. Sono nato quasi due generazioni dopo e non ho conosciuto la guerra e la resistenza del Curina. L’anni sessanta per me sono favolosi, perché li guardo come l’adolescenza da ‘n orizzonte fuori portata. Va avanti e indietro il tempo com’un soldato di ronda. Basta cambiare il punto di vista e ciò che prima era alle spalle, ora sta davanti a’l’occhi sgranati. Il problema, semmai, è vedere il futuro, per chi non ha le visioni o l’arte della politica del Ducci. Veniva dal Partito d’Azione, fece ‘l partigiano e anche qualche giorno di prigione, ma questa storia si legge nei libri e m’esenta da ‘n compito che non mi va punto a genio. Verso il mio primo maestro nutro quel rispetto che si deve alla memoria personale, che a l’oggettività de gli storici s’oppone per partito preso, perché c’è entrata nella carne viva e ragiona con que’la cosa con cui ragioneno le donne. L’omini del sito, invece, e io sono figlio naturale di questa terra, dovrebbero chiamarsi tutti Tommaso: se non toccano non credono. Sanno che la storia ognuno la fa come gli pare e, al massimo, la raccontano ai citti per falli addormentare. La mia sta nelle cose della vita e non si può costringere ‘n una serie di segni messi in fila, più o meno significanti, alfabeti d’una Babele dei popoli e delle lingue confinati ‘n qualche pagina d’un libro mai letto. Non c’è storia che s’è impressa ‘n me, da Pinocchio in là. Meglio scrivere, raccontare da testimone diretto l’unica storia che so, la mia. Mi rendo conto che ‘l raggio d’azione è parecchio limitato, in compenso è unico. Per me la prima cosa che conta per conoscere l’altri e il mondo è, come diceva Socrate, conoscere se stessi. E’ guardarsi a’lo specchio e fino dentro la coradella, per non farsi buggerare e’essere umani. Perciò della mia storia fanno parte solo l’omini e le donne ch’ho incontrato. Il Ducci è uno di loro. Per notizie serie su di lui rimando al bel saggio di Nino Materazzi, in Protagonisti del Novecento Aretino a cura di Luca Berti. Dirò solo ch’Arezzo, nel bene e nel male, deve al sindaco Ducci quant’a nessun’altro aretino del Novecento. La storia pochi la fanno, il Ducci è uno di questi. Niente capita a caso nella vita. O tutto? Comunque c’è una data tra noi due che, per me, è una coincidenza astrale: il 1951. L’anno in cui venni al mondo, il Ducci s’iscrisse al Grande Oriente d’Italia. Non so leggere i segni e, questo, dev’ammettere che mi scombussola dimolto, perché se s’ha una cosa ‘n comune io e ‘l Ducci, è la laicità intesa nel senso più lato. Aldo me l’insegnò a’le elementari ‘n via Masaccio, da cui scappò quasi subito perché era una costruzione del ventennio e unn’ce poteva stare. Ma dico io, propio lì dovevano mandarlo? L’ho conosciuto abbastanza da vicino. M’aveva richiamato in patria dai polverosi archivi di palazzo Casali e dai fondi chiusi della biblioteca di Cortona al tempo del sindaco Barbini, de’la Vesci e de gli etruschi, con la segreta speranza che m’occupassi del Saracino alla cui causa s’era convertito. Era intenzionato a dare un fondamento scientifico, che liberasse il re Moro dai retaggi del peccato originale d’esser nato figlio della Lupa. Delusi le sue attese non per mala volontà, ma per obiettive ragioni d’idiosincrasia con le scartoffie. Non ero fatto per fare il topo di biblioteca e soffrivo anche ‘n po di claustrofobia. Fu una reazione a l’anni c’ho passato chiuso tra gli scaffali di palazzo Casali, tra ‘l Barbini, la Vesci ed il Fabilli? Chi lo può dire? Comunque, per altri sei, mi limitai a fare lo stenografo del Ducci pensiero e i comunicati stampa del Comune. Quando mi chiamava, dettava parola per parola, anche le virgole. Aveva tutto ‘n testa e dava l’idea di pesare anche le sillabe col bilancino. Se non avesse fatto quasi trent’anni il sindaco d’Arezzo, per me poteva fare ‘l farmacista. Il suo tono di voce era perentorio come ‘na ricetta, una pillola la mattina a digiuno e una a’la sera dopo i pasti e prima di dormire. Quand’ero in consiglio comunale a fare l’addetto stampa, col Ducci mi pareva d’essere come quando faceva il maestro a’la Masaccio. Quando mi chiamava nelle su’stanze per un comunicato, praticamente unn’andavo neanche a capo. Andavo dal capo. Aveva ‘n tono stentoreo che non ammetteva repliche come Paganini, ma il difficile veniva dopo per decifrare ‘l testo ch’avevo stenografato. Come dice il proverbio, chi non capisce la sua  scrittura è un somaro addirittura. Me ne convinsi e mi servì a tenere i piedi piantati per terra e a non fare la fine d’Icaro. Verso il mio primo maestro nutro quel rispetto che si deve a ‘n padre. Ducci era figlio d’un’epoca nella quale parole come socialismo, comunismo, fascismo e democrazia avevano un significato preciso e non aveva tempo da perdere. Perciò stenografavo i suoi comunicati, senza sapere ‘n acca di stenografia, ma la necessità aguzza l’ingegno. Il Ducci diventò omo quando n’Italia c’erano i tedeschi e si viaggiava sul filo del rasoio. Perciò la sua parola era democratica, laica, unica e tagliente. Varianti non erano ammesse. Non per niente per segretario s’era scelto il Mastini, uno che non mollava l’osso come ‘l su’padrone.

Giorgio Ciofini
© Riproduzione riservata
20/03/2018 12:13:49

Giorgio Ciofini

Giorgio Ciofini è un giornalista laureato in lettere e filosofia, ha collaborato con Teletruria, la Nazione e il Corriere di Arezzo, è stato direttore della Biblioteca e del Museo dell'Accademia Etrusca di Cortona e della Biblioteca Città di Arezzo. E' stato direttore responsabile di varie riviste con carattere culturale, politico e sportivo. Ha pubblicato il Can da l'Agli, il Can di Betto e il Can de’ Svizzeri, in collaborazione con Vittorio Beoni, la Nostra Giostra e il Palio dell'Assunto.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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